Capoeira - L’engenho

Nel Brasile della canna da zucchero la principale unità di produzione era la grande piantagione.

Il mulino era la componente centrale del processo produttivo. Ne esistevano di due tipi: i grandi engenhos d’água (mulini ad acqua) e più piccole installazioni mosse dalla forza animale e chiamate trapiches.

Ciò che rendeva ricchi e potenti non era tanto il possesso delle terre, bensì il possesso del mulino, per cui l’intero complesso produttivo comprendente anche i terreni cominciò ad essere chiamato engenho e il suo proprietario senhor de engenho, letteralmente, signore del mulino.

Le grandi piantagioni di canna da zucchero erano luoghi d’abitazione stabile e bene ordinati, una forma di insediamento paragonabile come importanza alla città.

Quelle di grandi dimensioni possedevano anche una cappella con un parroco residente che si prendeva cura delle esigenze spirituali dei padroni, degli schiavi e dei lavoratori liberi.

La popolazione permanente dell’engenho comprendeva gli schiavi che svolgevano le mansioni più umili e meno specializzate; i sorveglianti; i lavradores (lavoratori liberi proprietari di terra ma privi di mulino; dipendevano dal senhor de engenho che pagavano con una quota della loro produzione); i tecnici che facevano funzionare il mulino e gli artigiani.

Gli alloggi che spiccavano all’interno della piantagione erano la casa-grande e la senzala.

Nella prima viveva il senhor de engenho con tutta la sua famiglia e i domestici. Era una grande tenuta costruita in stile coloniale con numerose stanze e giardino.

La senzala indicava le luride abitazioni degli schiavi, da cui essi uscivano la mattina al sorgere del sole e rientravano al tramonto.

Il guardiano di schiavi si chiamava capitão-do-mato poteva punire e frustare gli schiavi a suo piacimento. Egli lavorava a servizio del padrone e aveva anche il compito di inseguire e riportare indietro gli schiavi che fuggivano. Spesso il capitão-do-mato era un mulatto, magari uno dei tanti figli illegittimi del padrone.

Nella proprietà e in città era presente il Pelourinho; situato nella piazza pubblica o comunque in un luogo aperto e di passaggio, era il palo a cui venivano legati gli schiavi per le punizioni corporali e per le esecuzioni.Più di ogni altra cosa, il pelourinho è il simbolo di quell’epoca e del sistema schiavista brasiliano. Nonché simbolo per eccellenza della sofferenza della popolazione nera in Brasile.

La promiscuità nella casa-grande era altissima. Il senhor de engenho, che aveva diritto di vita e di morte su tutti, poteva abusare a suo piacimento delle schiave di qualsiasi età.

Ben presto cominciarono a nascere un numero altissimo di bambini e bambine color caffelatte. Alcuni venivano riconosciuti e godevano di qualche diritto; a volte si creava una certa benevolenza tra il padrone e qualche schiavo o schiava o figlio negro o figlio mulatto.

Anche i figli/e del padrone e la padrona stessa avevano nei confronti della servitù un comportamento ambiguo. Nel dia-a-dia (la vita quotidiana) la “distanza fisica” era talmente minima che di fatto i figli del padrone crescevano insieme ai figli dei domestici condividendo giochi, esperienze, linguaggio ed è così che tante parole africane sono entrate a far parte del vocabolario brasiliano.

I figli bianchi venivano in tutto e per tutto accuditi e allattati dalle balie africane e spesso le prime parole dei figli del senhor de engenho erano espresse in un dialetto africano.

Lo spazio della casa-grande era dunque il luogo di ibridazione per eccellenza, dove abuso e potere dei bianchi si mischiavano alla malizia della coabitazione dei neri.